Perché qualcuno deve pur cantare le stelle
E qualcuno deve cantare la pioggia
E qualcuno deve cantare il sangue
E qualcuno deve cantare il dolore
E’ difficile parlare di un film come questo. In generale è difficile parlare di un cinema che è vissuto e non è finzione… e per l’appunto è questo il caso.
Si può provare ad iniziare da una storia, la storia dell’ultimo anno di vita di Nick Cave. Nick sta lavorando al suo album “Skeleton Tree”, in stretta collaborazione con il suo braccio destro “factotum” Warren Ellis.
Ha voglia di promuoverlo mediante un docu-film diverso dal solito, diverso anche dal precedente 20.000 Days on Earth che già lo vedeva come protagonista, e così contatta il suo amico di lunga data Andrew Dominik per la realizzazione dello stesso. Le tracce sono quasi concluse, non resta che registrarle, le riprese iniziano.
Ma un evento imprevedibile interviene a modificare il corso degli eventi e degli intenti: nell’estate del 2015 Arthur Cave, il figlio quindicenne di Nick, a seguito dell’assunzione di LSD vola giù da una scogliera nei pressi di Brighton…. Dalla “storia” al “caos”!
Nick è davanti allo specchio ora! Guarda la sua immagine riflessa, si sistema i capelli…
E’ così che faceva anche in una scena di 20.000 Days on Earth.
Ma qualcosa stona: quelle occhiaie a contorno dello sguardo!
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E’ sicuro, quelle occhiaie non c’erano l’anno addietro… Come si è trasformato in un “monumento malconcio”?
Si siede al piano e si appresta a registrare.
La voce manca, gli accordi anche. Un attimo prima erano fissati, duraturi!
Ora si trasformano ad ogni istante…
E’ Nick a non essere più lo stesso: ha perfetta coscienza di ciò che era, di come era solito reagire a determinate situazioni; ma ora non può più avere pieno controllo di sé, delle note, delle parole…
Ora tutto scorre in un flusso di coscienza libero, che avvicina l’arte alla filosofia.
Dunque, il docu-film di promozione si modifica anche lui in corso d’opera: diventa una partecipazione ad un dolore che è intimo ed universale al tempo stesso, trattato senza pietismo alcuno, in un elegantissima ripresa in 3D b/n.
Davvero in pochi le conoscono:
Non si è però davanti ad un tentativo di elaborazione del lutto, che nessun lutto è elaborabile, ma di una vera e propria confessione di un uomo che apre il varco alla sua anima.
La musica è ancora protagonista: si è dentro lo studio di registrazione. Ma anche le tracce acquistano nuova natura e, rivelando il loro carattere profetico, diventano un requiem sommesso.
Si parte con Jesus Alone: Nick al piano, Ellis a “manovrare” l’orchestra con movenze sciamaniche fra crescendi e diminuendi.
“Credi in Dio ma non ottieni nessuna dispensa speciale…”.
Segue Girl in Amber: ecco che finisce dentro anche Susie, sua moglie, colei che lavora e sposta mobili così non pensa…
“Ti ho visto là in piedi nel supermercato/con il tuo vestito rosso che cadeva e gli occhi bassi/niente importa davvero, niente importa davvero quando chi ami se n’è andato/Sei ancora in me, baby… I need you”. Arthur s’insinua in quelle poche parole, la voce si rompe. “Mi mancherai quando te ne sarai andato…”
Ecco che le cose invisibili e perdute assumono peso e massa maggiori…
Mancanza e impossibilità di distacco dal trauma. Nick qui fa l’esempio di un elastico: provando ad allontanarsi, con maggiore intensità si finisce colpiti…
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Mancanza e disincanto:
“Ci hanno detto che i nostri sogni ci sopravvivono/Ci hanno detto che i nostri dei ci sopravvivono/Ma hanno mentito”.
Ma nonostante tutto, il messaggio è di speranza: si può ancora aver voglia di vivere ed essere felici quasi fosse un sentimento di vendetta, ci si può ancora accorgere della bellezza gratuita che ci circonda anche mentre il mondo affonda che nell’Inferno c’è più Paradiso di quanto ci abbiano detto…
E così dall’Inferno non si scappa, ci si immerge nelle acque profonde di cui cantano Arthur ed il gemello Earl nella canzone messa a finale e ci si affida alla risalita.
E al sentimento… ancora una volta.