Il fenomeno del divismo cinematografico riguardò l’universo maschile tanto quanto quello femminile.
E così anche fra gli uomini andarono a crearsi degli stereotipi che la massa ben spesso cercò di imitare.
Di seguito si elencano i principali.
Il Play-boy
Il primo divo che il cinema fece nascere fu sicuramente Rodolfo Valentino, il più grande amatore dello schermo di tutti i tempi.
Iniziò la sua carriera come gigolò da Maxim’s, divenne quindi ballerino, prima di essere finalmente ammesso alla corte di Hollywood.
Di quel periodo dice lui stesso: “Io volevo la Fama. Io volevo l’Amore. Io volevo che il mio nome risuonasse per il mondo.
E volevo che quel nome ridestasse l’amore nel mondo mentre vi risuonava attraverso”. Il film che gli permise di ottenere ciò che cercava fu “Lo sceicco”: in esso seppe sprigionare un incredibile fascino esotico, in quanto interpretò uno sceicco arabo innamorato di una donna inglese.
Il pubblico femminile fu totalmente rapito dal suo sguardo magnetico, accentuato dal trucco, come anche dai lineamenti delicati del suo volto incorniciato dalla capigliatura impomatata, tanto che si narra che dopo il film ricevette ben 10.000 richieste di matrimonio dalle sue fan.
A chi lo interrogava circa questo successo come amatore, egli rispondeva: “Le donne non sono innamorate di me, ma della mia immagine sullo schermo. Io sono soltanto la tela sulla quale le donne dipingono i loro sogni”. Il suo astro ebbe purtroppo breve vita, in quanto morì all’età di appena 31 anni di peritonite.
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L’Uomo del West
Il genere cinematografico verso cui, fin dalle origini, tende spontaneamente ad incanalarsi lo spirito americano d’avventura è il western.
Non stupirà dunque che la seconda categoria “divistica” che si venne a creare fu quella dell’ “Uomo del West”: di norma, si tratta di un cowboy, un nobile cavaliere che riesce a conquistarsi l’amore di una fanciulla sgominando i malvagi.
Il più nobile esponente di questo genere fu sicuramente John Wayne, uomo che incarna alla perfezione l’eroe rude e semplice, colui che combatte per la giusta causa o che sa circondarsi di un alone di rispetto anche quando è nel torto, grazie alla sua forza ed al suo coraggio.
Con “Ombre Rosse” (1939) raggiunge l’apice del successo, grazie alle valenze psicologiche che seppe dare al suo personaggio: Ringo è un fuorilegge, ma nonostante questo presenta più nobiltà d’animo di qualsiasi altro componente della diligenza, seppur borghese; è una sorta di giustiziere, in grado di “raddrizzare” torti collettivi ed individuali.
E sarà questa la peculiarità che porterà avanti per tutta la sua carriera cinematografica, fino ad arrivare all’Oscar per l’interpretazione de’ “Il Grinta” (1969).
Il Bravo Ragazzo
In questa tipologia possiamo far rientrare più di un attore.
Innanzitutto, Gary Cooper. Costui iniziò la sua carriera cinematografica come stuntman.
Aveva infatti trascorso la sua infanzia in un ranch, a stretto contatto con i cavalli. Un giorno, un suo amico gli presentò la possibilità di lavorare nel cinema, facendosi pagare per cadere da cavallo o per essere in grado di rovesciare una diligenza.
E così iniziò il tutto.
Scrive di quel periodo: “Dopo solo sei mesi di cinema ero al massimo della mia fama come specialista in spettacolose cadute da cavallo… Vedevo il mio avvenire limitato a montare cavalli sempre più cattivi, a velocità sempre maggiori, in fossati sempre più profondi, finchè un bel giorno mi sarei spaccato la testa come un vaso di porcellana. Mi dissi che l’unico modo di salvare l’osso del collo era di diventare attore”.
La promozione da semplice comparsa al ruolo di protagonista l’avrà con “Marocco” (1930), in cui avrà la possibilità di recitare al fianco della grande Marlene Dietrich. Nella gran parte delle sue interpretazioni, divenne lo stereotipo dell’uomo normale, buono, onesto, talvolta ingenuo. Diede il meglio di sé in “Mezzogiorno di fuoco” (1952) e “La legge del Signore” (1956).
Un altro “bravo ragazzo” per antonomasia è James Stewart, che aggiunge alle caratteristiche del precedente una nota di simpatica goffaggine. Il suo film più celebre è sicuramente “La vita è meravigliosa” (1946), in cui nei panni dell’onesto George Bailey che scopre i valori autentici dell’esistenza, mette in scena l’utopia della bontà assoluta.
Infine, un altro grande attore che non può non essere menzionato in questa categoria è Cary Grant: caratterizzato dalla stessa andatura dinoccolata di Gary Cooper e dalla stessa spiritosaggine di James Stewart, il suo valore aggiunto fu una sorta di velata autoironia, che ben riuscì a cogliere un grande regista come Alfred Hitchcock.
In un film di quest’ultimo ebbe proprio la sua parte migliore, ovvero in “Intrigo Internazionale” (1959), dove interpreta un pubblicitario newyorkese dalla battuta pronta scambiato per errore con un uomo coinvolto in loschi affari.
Di lui diceva Sophia Loren: “Cary Grant ha… la sua arma migliore negli sguardi: senza neppur muovere la testa, ti guarda di sottecchi, quasi di sfuggita, eppure è capace di colpire con un’occhiata come con un pugno o con un bacio”.
Il Duro
Alla tipologia del “bravo ragazzo” si contrappose da subito quella del “duro”, una sorta di conquistatore non apollineo, dotato di un sex-appeal aggressivo; non romantico dunque, bensì sfrontato e brutale, una specie di domatore di donne dagli atteggiamenti provocatori e dai tratti marcati.
Il massimo rappresentante ne fu Clark Gable. Costui ebbe un inizio carriera abbastanza difficoltoso, in quanto inizialmente il suo aspetto non rispecchiava i canoni estetici dell’epoca.
Davvero in pochi le conoscono:
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Veniva infatti criticato per via delle sue orecchie a sventola, fin quando non si realizzò che con determinate inquadrature poteva essere ben minimizzato il difetto, a vantaggio di una dote recitativa notevole. La parte di Rhett in “Via col Vento” (1939) lo consacrò come “Re di Hollywood”.
Nella stessa categoria va fatto rientrare il personaggio Humphrey Bogart.
Gli erano particolarmente congeniali le parti nei gangster movie, in quanto in essi poteva mettere in atto un look personalissimo e gli atteggiamenti corporei che lo resero famoso: eccolo comparire avvolto in un impermeabile chiaro, il cappello a larga tesa di sbieco, la sigaretta fumante all’angolo della bocca, il volto corrucciato che ogni tanto concede un sorriso a denti stretti, trasformato quasi in un ghigno dalla cicatrice sopra il labbro.
Tutto questo lo rendeva virile, mascolino, affascinante, nonostante la bassa statura.
Fra le sue maggiori interpretazioni, dobbiamo ricordare quella in “Casablanca” (1942) nei panni di Rick Blaine, che per poco non gli valse l’Oscar, e il ruolo dell’ex investigatore Philip Marlowe ne’ “Il Grande Sonno” (1946). Nel 1999, l‘American Film Institute l’ha consacrato con il titolo di “più grande stella maschile americana di tutti i tempi”.
Il Tormentato
L’ultima categoria che tratteremo in questa sede è quella che forse ha avuto maggior fortuna: stiamo parlando dei “tormentati”, dei belli e dannati, di uomini cioè induriti dalle sofferenze esistenziali.
Molto spesso, in questi casi, si veniva operando nel metodo recitativo dell’attore, una trasposizione fra quella che era la sua vita ed il ruolo che veniva chiamato ad interpretare: a partire dagli anni Cinquanta, infatti, gli Actor’s Studio di Hollywood cominciarono a fare un ricorso sempre maggiore al “Metodo Stanislavskij”, che sviluppava la capacità recitativa degli attori proprio facendoli vivere della vita dei loro personaggi, e richiedendo in più un ricorso alle esperienze dolorose del loro reale background da mettere al servizio della pellicola.
L’icona più grande, in questa categoria e non solo, fu Marlon Brando. Approda al cinema dopo i successi di Broadway, ed ottiene il primo grande consenso di pubblico e critica con la parte di Stanley in “Un tram che si chiama Desiderio” (1951), di Elia Kazan.
Stanley è un uomo brutale e maschilista, contemporaneamente temuto ed amato dalla moglie Stella.
Qui Brando si presenta anzitutto bello in modo disarmante, ma quel che colpisce ancor di più è la doppiezza di carattere che riesce a mettere in scena: lo vediamo in un momento istintivo e primordiale, ma un attimo dopo è profondamente sensibile, e questo spiazza lo spettatore che finisce per essere totalmente conquistato dalla sua sostanziale inafferrabilità.
Ne’ “Il Selvaggio” (1953), è una sorta di teppista, e diventa emblema di una certa gioventù bruciata.
Il pubblico maschile comincia ed emularlo nella sua eccentricità, sfoggiando simili camicie sbottonate e blue jeans.
Di lì in poi, seguono film come “Fronte del porto” (1954), “Ultimo tango a Parigi” (1974), “Il Padrino” (1974), “Apocalypse now” (1979), tutti ruoli in cui riesce a far vibrare i suoi personaggi rendendo tangibili le loro interne pulsioni psicologiche, spesso appena suggerite dalle sceneggiature, e bucando lo schermo col suo sguardo magnetico e l’intensa espressività.
Al Pacino, che recitò con lui ne’ “Il Padrino”, ebbe modo di affermare: “E’ come recitare con Dio”.
Altro esempio di gioventù ribelle e tormentata fu rappresentato da James Dean. Ad incrementare il suo mito, più che i suoi film, poté la sua biografia.
Cominciamo dunque dall’inizio. Perse la madre che aveva appena 9 anni, ed ugualmente il padre, non concretamente ma a livello affettivo: quest’ultimo decise infatti di non tenerlo con sé, affidandolo invece agli zii.
In una simile situazione familiare, Dean crebbe con il complesso dell’orfano, che accrebbe l’indole ribelle ed irrequieta.
A 18 anni fu espulso dalla scuola per aver percosso un insegnante. L’anno dopo tentò il college, ma alla fine lasciò per dedicarsi esclusivamente alla recitazione.
Tre sono i suoi film di grande successo, tutti girati nello stesso anno in cui morì (1955): “La Valle dell’Eden”, “Gioventù Bruciata” e “Il Gigante”.
Quasi sempre mette in scena un disagio generazionale ed il difficile rapporto fra genitori e figli. La sua è una recitazione sofferta, che si palesa, ad esempio, in quel modo di camminare con le mani in tasca e la testa bassa, in quelle espressioni pensose e scontente, in quegli occhi cupi.
Piacque la sua fragilità e la sua incapacità di appagamento esistenziale, in quanto erano proprie di molti giovani della sua generazione.
Morì in un incidente dovuto all’eccesso di velocità, e questa tragica fine fece ancor più divampare un culto isterico.
L’Antidivo
Anche la seconda generazione degli Actor’s Studio può in parte essere fatta rientrare nel filone dei “tormentati”, ma si spinse ancora oltre: operò infatti una demolizione del concetto tradizionale di divo, sostituendolo con quello dell’ “antidivo”.
Parliamo di attori come Dustin Hoffmann, Robert De Niro, Al Pacino, non più supportati da connotazioni estetiche, ma belli proprio perché umani e talvolta perdenti.
Come tutti noi…